Il Mediterraneo: un cimitero blu

Corpi senza nome. Numeri e punti in mezzo al mare in balia delle onde. Di chi è la responsabilità quando una barca affonda? Ognuno esegue gli ordini. A soccorrere ormai non c’è più nessuno.

26.000 in dieci anni. 2.406 nel 2022. 225 solo nel 2023.  Questi, i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), la quale, traccia gli incidenti che coinvolgono i migranti che sono morti o scomparsi nel percorso di migrazione verso una destinazione internazionale. Una responsabilità Europea e Italiana che investe nel rafforzamento delle autorità marittime libiche e negli accordi informali sul traffico di rifugiati e migranti. Un paradosso sociale che vede un crimine svilupparsi attraverso un apparato burocratico ordinario sotto lo sguardo immorale di ognuno.

L’ “emergenza migranti” inizia a farsi sentire sulle coste italiane a partire dal 2012. Quello stesso anno, il governo italiano lancia l’operazione Mare nostrum per il salvataggio di vite in mare. Nel 2014 l’operazione viene sospesa con l’istituzione della Triton, una missione a guida europea.

Ad oggi, non esistono meccanismi coordinati per la ricerca, il salvataggio e lo sbarco delle persone. Dato in evidenza è, invece, la violazione dei diritti umani fondamentali commessa dalla guardia costiera libica durante il coordinamento delle azioni di salvataggio. 

La mancanza di soccorso in mare è l’esito di una campagna di criminalizzazione delle ong partita dal 2017 e inasprita con l’ultima legge anti ong approvata il 23 febbraio 2023 dal governo Meloni.

Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha più volte ribadito la necessità di percorsi sicuri, ordinati e legali per migranti e rifugiati, fornendo ricerca, soccorso e assistenza come imperativo umanitario e obbligo morale e legale.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha richiamato la responsabilità europea nel sottrarre i fenomeni migratori ai trafficanti di esseri umani impegnandosi in modo diretto nelle politiche migratorie.

L’ultimo naufragio, avvenuto il 26 febbraio 2023, a Steccato di Cutro, vicino Crotone, dimostra che le attuali politiche non sono in grado di affrontare l’arrivo dei migranti in modo strutturato.

La tratta che collega Libia e Tunisia all’Italia è la più letale in tutto il Mondo. Oltre al cimitero blu, però, c’è un altro cimitero poco conosciuto: il deserto del Sahara. Chi riesce a tentare la traversata in mare, infatti, è sopravvissuto alle violenze e agli abusi del viaggio sulla terra ferma e alle carceri libiche. Alcuni vengono riportati al proprio Paese di origine; altri vengono ammassati su gommoni e barche fatiscenti, spesso guidati dagli stessi migranti addestrati in modo sommario prima della partenza. L’imbarcazione deve partire, non importa se giungerà a destinazione.

Il naufragio lungo le coste della Calabria, dell’imbarcazione partita da Izmir, in Turchia, è costato la vita ad almeno 64 persone. Per Scandura, dal comunicato della guardia di finanza sembrerebbe che i naufraghi fossero stati considerati “migranti irregolari” e non “naufraghi” e che, per questo motivo, sia stata decisa un’operazione di polizia e non una missione di salvataggio come dovrebbe avvenire in questi casi. Una tragedia divenuta l’emblema della banalità del male poiché, in mare, prima si salva e poi si ragiona.

Quello del 26 febbraio è solo l’ultimo evento drammatico nel mare che inghiotte corpi. La strage maggiore del Mediterraneo centrale risale al 19 aprile del 2015 quando, da Tripoli al canale di Sicilia, si sono registrati solo 28 sopravvissuti tra circa 850 persone a bordo. Anni prima nel 2013, nei pressi di Lampedusa, un naufragio a pochi metri dalla meta è costato la vita a 368 persone e solo otto giorni dopo, sessanta minorenni sono annegati in mare nell’ormai nota “strage dei minori”.

In un mare che lascia tracce, come si è giunti a trasformare una barca in un punto senza valore? Un punto che rende ben visibile l’asimmetria di potere tra chi osserva e chi viene osservato. 

Corpi che diventano linee di demarcazione di un confine che segna una distanza e ogni volta che questa distanza diminuisce mette in crisi tanto che salvare diventa un crimine.

Mettere in scena la democrazia: gli strumenti della politica

Introduzione

Questo elaborato intende indagare le tendenze più significative della comunicazione politica degli ultimi anni con il passaggio dai partiti di massa alla centralità dei leader. In particolar modo saranno messi in luce gli strumenti di potere di una politica sempre più adeguata alle logiche del marketing. Tra questi, il potere della narrazione diventa fondamentale. La “battaglia” politica si fa duello di storie in campagna elettorale ed immettere nei propri discorsi il frame dell’avversario può, al contrario di ciò che si vorrebbe, rafforzarlo. Ogni parola ascoltata evoca un frame nella mente dell’individuo ora coinvolto dall’emozione, ora manipolato all’aggressione e alla mobilitazione.

Sarà interessante in questo lavoro di osservazione provare ad analizzare quali sono stati gli strumenti utilizzati in Italia durante l’ultima campagna elettorale del 25 settembre 2022, quali sono stati gli elementi vincenti e forti e quali invece quelli che hanno contribuito a risultati spiacevoli. In particolare, verrà fatta una comparazione tra la comunicazione di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia ed Enrico Letta, segretario del Pd, muovendo dai manifesti grafici ai discorsi in piazza pronunciati in occasione dell’apertura e della chiusura delle rispettive campagne.

1. Leader al centro

Le ultime elezioni politiche in Italia, il 25 settembre 2022, sono state un chiaro segnale della tendenza ormai consolidata da parte dei partiti ad indietreggiare rispetto ai propri leader.

Un’attitudine che traccia il terreno, soprattutto in campagna elettorale, ad uno scontro tra singoli rivali. Si tratta di una politica che si fa sempre più spettacolo all’inseguimento del mero coinvolgimento dell’elettore. Lo scontro irrimediabile tra leader, i quali perdono di vista il proprio ruolo di responsabilità, produce un impoverimento del dibattito pubblico con la consecutiva sfiducia dei cittadini verso il mondo politico. Le accuse tra le parti sostituiscono temi, valori e programmi; così, il Noi-Loro della politica italiana rischia di non lasciare alcuno spazio al manifestarsi di un dibattito pubblico in ambito politico.

Come si è giunti alla centralità del leader, rispetto al partito di appartenenza, nell’attuale panorama politico italiano? Per tentare di dare una risposta a tale domanda occorre ripercorrere gli anni del Novecento. Il secolo dell’avanguardia si apre con l’ormai consolidata affermazione dei grandi partiti di massa. La gente si fida del suo partito e vota per abitudine e per appartenenza ideologica. Gli elettori si recano ai comizi e alle parate di proprio interesse e vige il cosiddetto “voto di appartenenza”, le campagne elettorali si rivolgono ai propri simpatizzanti.

Sono gli anni Cinquanta quando il mezzo televisivo arriva in Italia stravolgendo le consuete forme di comunicazione, dando avvio ad una fase moderna della storia italiana. L’avvento della televisione muta le abitudini e plasma nuovi linguaggi allontanando sempre più la politica dagli elementi che per anni l’avevano caratterizzata. Infatti, con la nascita di spot politici, telegiornali e forme di intrattenimento, il nuovo mezzo di comunicazione di massa offre un’importante opportunità, cioè, quella di rivolgersi potenzialmente ad un pubblico molto vasto e indistinto. Nel contesto di un nuovo spazio mediato da uno verso molti, acquista sempre più rilevanza il leader del partito, gettando le basi di una personalizzazione della politica. Al voto di appartenenza si sostituisce il “voto di opinione” e le nuove campagne elettorali si rivolgono a tutti gli elettori cercando di portare dalla propria parte anche gli indecisi, considerati sempre più come il pubblico di uno spettacolo.

Non è più la pertinenza che conferisce efficacia al linguaggio pubblico, ma la plausibilità, la capacità di guadagnare l’adesione, di sedurre, di ingannare […] il successo di una candidatura non dipende più dalla coerenza di un programma economico e dalla pertinenza delle soluzioni proposte, e nemmeno da una visione lucida dei nodi geostrategici o ecologici, ma dalla capacità di mobilitare in proprio favore grandi correnti di audience e di gradimento.

(Christian Salmon, Storytelling- La fabbrica delle storie, Fazi Editore, 2008 p. 117)

Pertanto, dovendo puntare alla pura seduzione dell’elettore, diventa estremamente rilevante esportare le tecniche di marketing in ambito politico. Tra queste, la scelta sofisticata del packaging da parte delle aziende di marketing, si traduce in politica nell’attenzione posta all’immagine sociale di un leader. Il prodotto da vendere non è il partito con i suoi valori; il prodotto è il leader stesso.

Non ci sorprendiamo oggi se, in Italia, troviamo il nome del leader nel simbolo di partito, come ad esempio “Lega Salvini Premier” o “Giorgia Meloni- Fratelli d’Italia”.

Inoltre, la netta personalizzazione può essere riscontrabile nei discorsi in cui si fa un uso cospicuo della prima persona singolare. Uno stratagemma, questo, utilizzato soprattutto da Giorgia Meloni nella recente campagna elettorale per le elezioni del 25 settembre.

Nel discorso di apertura della campagna elettorale ad Ancona ,il 23 agosto, utilizza espressioni come: “ho voluto…”, “ho deciso di candidarmi…”, “io in coscienza vi dico che penso di poter guidare un governo…”, “a me piace parlare dei problemi di oggi”, “voglio che la gente sia libera”, “voglio che lo Stato sia un alleato” e ancora, “non devi conoscere nessuno nell’Italia che voglio governare io”, “io penso di essere l’unica…”, “sono stata accusata”, “la mia personale battaglia”, “io non ho paura”.

Sempre nelle vicende dell’ultima campagna elettorale, Enrico Letta si è più volte definito diverso dagli altri in questa estrema personalizzazione, tanto da non aver inserito il suo nome all’interno del simbolo del Pd. La contraddizione lampante di questa esternazione può essere più volte contestata dall’uso della prima persona durante il discorso di apertura della campagna elettorale a Bologna: “inizio un lungo viaggio”, “sono fiero…”, “sono orgoglioso”, ho lasciato il lavoro che facevo”. Espressioni queste contraddittorie rispetto all’affermazione all’interno del discorso: ”noi siamo la politica del noi”.

Nei discorsi in Piazza effettuati da Enrico Letta in campagna elettorale è possibile notare, in termini di personalizzazione, una vera e propria evoluzione. Se nel discorso del 25 agosto l’impostazione appare più formale, il leader è solo sul palco e sta fermo dietro al leggio; nelle parole pronunciate in occasione della chiusura della campagna a Roma, il 23 settembre, il leader si muove sul palco circondato dai vari membri del partito. In questa occasione non utilizza mai nel corso del discorso la prima persona singolare, ma sempre e solo il noi: “noi siamo qui tutti insieme”. Stessa cosa non si può dire invece di Giorgia Meloni che nel suo ultimo discorso a Roma, il 22 settembre, decide di mantenersi coerente e di salire da sola sul palco. Il discorso si apre con i ringraziamenti ai membri della coalizione di destra, anche in questo caso il riferimento va ai singoli leader e non ai partiti.

2. Il marketing politico

In Italia, il primo a servirsi delle tecniche di marketing commerciale e di pubblicità fu Silvio Berlusconi sul finire del Novecento. Quest’ultimo non fu un genio della comunicazione ma, fu il primo a comprendere che anche in politica occorresse studiare il mercato, cercando di capire cosa provasse e pensasse l’elettorato prima di costruire la campagna elettorale, cioè prima del lancio del prodotto. Il centrosinistra iniziò a parlare di berlusconismo, accusando il leader di aver causato un “imbarbarimento” della comunicazione politica. Questo atteggiamento di repulsione delle tecniche del marketing da parte della sinistra durò fino al 2007, anno in cui il leader del Pd, Walter Veltroni, decise di combattere Berlusconi con le sue stesse armi.

Il problema centrale della comunicazione di Veltroni, tuttavia, è che traeva dalle tecniche commerciali solo gli aspetti più esteriori e volatili […]. Per di più, nella campagna per le politiche del 2008 Veltroni imitò la comunicazione di Obama, senza riuscire a adattarla al contesto italiano.

(Giovanna Cosenza, Semiotica e comunicazione politica, Editori Laterza, 2018, p. 121)

Nell’aprile del 2008 la sconfitta elettorale punì Veltroni e, il Pd, dal punto di vista comunicativo non fu mai capace di imparare dagli errori. Non si tratta di un problema solo del partito di sinistra, più in generale, in Italia c’è una scarsa cultura della comunicazione. Tale tendenza, spinge la politica e le aziende a concentrarsi più su grafici e colori che sui contenuti. Rivalutare la comunicazione odierna significherebbe infatti generare nuove strategie di comunicazione che portino al centro dei discorsi i contenuti.

Visual storytelling campagna elettorale di Enrico Letta per le elezioni del 25 settembre 2022.

https://roma.repubblica.it/cronaca/2022/08/26/news/elezioni_campagna_elettorale_letta_pd_post_pasta-362991419/ https://elezioni2022.partitodemocratico.it/scegli-la-nuova-campagna-del-partito-democratico/

Proprio quest’anno, durante l’ultima campagna elettorale, il leader del Pd, talmente si è immedesimato sulla grafica e sul gioco di colori nero-rosso che, a furia di semplificare ha trasformato in banalità il confronto mettendo da un lato la pancetta e dall’altro il guanciale. La mossa di Letta ha ricordato in qualche modo quella di Bersani nel 2013, quando il leader prese così sul serio la parodia che faceva Maurizio Crozza delle sue celebri metafore rurali da adottare come slogan “smacchiamento del giaguaro” (ovvero Berlusconi).

In un articolo de Il Fatto Quotidiano la professoressa dell’Università di Bologna Giovanna Cosenza definisce la comunicazione di Enrico Letta poco originale, il classico discorso politico negativo sulla crisi e sul passato contribuendo a definire il leader del Pd “emotivamente disforico” e capace di un linguaggio astratto che non riesce ad evolversi. Al contrario, la studiosa definisce la comunicazione di Giorgia Meloni più concreta e positiva nella costruzione dell’orgoglio di essere italiani. La sua comunicazione ha convinto sia per la coerenza che per la sicurezza. Sicurezza che si può notare a partire dallo slogan “Pronti”.

Mentre Letta si rivolge potenzialmente a tutti gli elettori che trovandosi in una fase che potremmo definire di competenza insiste sulla volontà e sul dovere di scegliere; Meloni con lo slogan “pronti” fidandosi del suo elettorato sembra essere già passata ad una fase di azione, quella che definisce più volte “battaglia”.

Provando ad analizzare i due diversi slogan: Scegli e Pronti possiamo subito notare che se da una parte abbiamo un chiaro invito all’azione rivolto al destinatario; dall’altra invece c’è la dichiarazione di essere pronti a fare qualcosa per il destinatario.

Possiamo notare come il manifesto di Giorgia Meloni rappresenti un esempio di locus of control interno, nel senso che il comunicatore si assume l’onere che la sua azione generi effetti nella realtà. Nel manifesto di Enrico Letta, al contrario, il locus of control è esterno: “Scegli”. È il destinatario che, attraverso la sua azione, fa dispiegare degli effetti nella realtà.

(Patrick Facciolo, Sono più efficaci i manifesti di Letta o Meloni? La teoria del “locus of control”, 21 settembre 2022, Parlare al microfono.it)

Dunque, da una parte un invito che offre una soluzione e dall’altra una richiesta che chiede di compiere un’azione. Ovviamente, lo scenario in cui il politico offre una soluzione si delinea come quello più efficace dal punto di vista del marketing politico.

Quest’opera di “rebranding” per risollevare l’Italia si riscontra anche nel manifesto: primo piano, sorriso, colori accesi, positività.

Manifesto della campagna elettorale di Giorgia Meloni per le elezioni del 25 settembre 2022.

Questa non è l’unica strategia messa in atto da Giorgia Meloni ma, i suoi discorsi sono un susseguirsi di domande a cui lei stessa risponde, sono caratterizzati da un continuo uso consapevole del tono di voce, ora moderato ed empatico, ora urlato e passionale, a seconda che ci si rivolga all’elettorato interno o ai partner internazionali. Anche la ripetizione delle medesime parole fa si che certi temi si ancorino nelle menti delle persone, specie se l’isotopia ridondante attiene al campo semantico degli affetti familiari.

Sempre nell’artico de Il Fatto Quotidiano, Giovanna Cosenza definisce i toni e i modi di Giorgia Meloni tipici di una comunicazione virilmente aggressiva. A tutto ciò la leader di Fratelli d’ Italia aggiunge spesso ironia.

Mettere in scena la democrazia invece di esercitarla diventa il nuovo obiettivo primario. La ribalta dei racconti e dei personaggi diventa lo strumento più utile per agire sugli stati d’animo, trascurando la diffusione delle informazioni sui programmi.

3. Storie

Una foto scattata nel maggio 2004 ritrae George Bush e Ashley Faulkner. Durante la campagna elettorale in America, il padre della ragazza scatta una foto nel momento in cui Bush abbraccia Ashley, un’adolescente che aveva perso la madre durante l’attacco alle Torri gemelle l’11 settembre del 2001. Questa foto circola su Internet, diventa virale. Un’immagine, questa, che si fa racconto di George Bush descrivendone empatia. Ciò illustra la forte componente passionale della sua comunicazione, la messa in comune alla gente dei propri sentimenti volendo creare un soggetto collettivo unito di fronte alle difficoltà.

Nuove tecnologie di potere minacciano i luoghi del dibattito democratico. Chi gestisce le macchine narrative detiene in mano il potere della manipolazione delle menti. Storie semplici possono influenzare le opinioni, strumentalizzare le emozioni, privando l’individuo dei propri mezzi intellettuali.

Con l’arrivo di Internet, il caos dei saperi frammentati ha trasformato la comunicazione politica con l’avvento di una nuova era: l’età performativa delle democrazie1. Così avviene l’ingresso degli spin doctor dei partiti, forti del loro potere di narrazione.

<<Le innumerevoli stories create dalla macchina della propaganda sono protocolli di ammaestramento, di addomesticazione, che mirano a prendere il controllo delle pratiche e ad appropriarsi dei saperi e dei desideri degli individui>>.

(Christian Salmon, Storytelling- La fabbrica delle storie, Fazi Editore, 2008, p.169)

Nel discorso di apertura della campagna di Giorgia Meloni ad Ancona è possibile individuare l’isotopia della battaglia: “la mia personale battaglia”, “sono disposta a condurre questa battaglia”, “voglio difendere questo”, “questa è la mia personale battaglia”, “liberare questa nazione”. Nel racconto presentato da Giorgia Meloni si potrebbe riscontrare un programma narrativo chiaro: Lei (soggetto), modalizzata secondo il volere, è pronta, cioè intende condurre una battaglia per raggiungere un obiettivo (oggetto di valore): liberare gli italiani dal potere corrotto della sinistra che si fa anti-soggetto. Sempre restando nel campo semantico del conflitto vediamo da un lato avversari forti e pronti; dall’altro nemici insicuri ed in preda alla paura: “quella sinistra terrorizzata da perdere quel potere”, “c’è gente che ha paura”, “io non ho paura”. Quello della paura è un tema che torna nuovamente nell’ultimo discorso a Roma, tutta la comunicazione è infatti un continuo susseguirsi della frase “Gli altri ci temono e fanno bene perché”.

La concretezza della leader di Fratelli d’Italia la si può trovare nei molteplici esempi della propria storia personale, uno strumento molto forte, anche qui, per suscitare empatia e coinvolgere a livello emotivo: “è stato detto che io odio i poveri, curioso dato che non vengo da una famiglia particolarmente agiata”, “ma figuratevi se io che sono stata anche obesa e bullizzata posso considerare che l’obeso è un deviato”.

Le campagne elettorali operano sulle predisposizioni dei votanti attivando o disattivando i processi di emozione e cognizione, con lo scopo di realizzare gli obiettivi della campagna. A prescindere dall’ideologia e dalla retorica presenti nei discorsi politici, una cosa sola importa ai partiti politici e ai candidati in campagna elettorale- vincere. Tutto il resto è secondario. (Manuel Castells, Comunicazione e Potere, Università Bocconi Editori, 2009 p.287)

Negli ultimi decenni si è parlato di management dell’informazione, cioè del fatto che gli attori politici si dotano di forme di comunicazione più complesse coinvolgendo nuove figure professionali.

A partire dagli anni Novanta, infatti, si è formato un corpus di studi sulla comunicazione politica e “un numero crescente di studi mette in evidenza il ruolo degli appelli all’emotività” (Jamieson, 1992; West, 2001; Richardson, 2003)2 .

La relazione di potere viene a basarsi sulla capacità o meno di plasmare la mente umana nel modo migliore pensando sempre più ai cittadini come potenziali clienti.

4. Toni forti e aggressivi

Oggi si è soliti parlare di politica dell’inciviltà, termine utilizzato dalle studiose Sara Bentivegna e Rossella Rega per evidenziale l’attuale imbarbarimento della politica fatta di insulti e grida.

Dal punto di vista dei soggetti che utilizzano modi di interazione “incivili” si può sostenere che questi diventano una precisa strategia di comunicazione in grado di produrre consenso. Esempio immediato dell’utilizzo di questo linguaggio è Donald Trump. Nel suo discorso, negli Usa, il 6 gennaio 2021 usa un linguaggio molto forte e aggressivo che incita i suoi sostenitori al “combattimento”. Metafora, quest’ultima, che ritroviamo con un parallelismo nella comunicazione di Giorgia Meloni dove più volte si sollecita, come abbiamo visto, il campo semantico della battaglia.

La costruzione di un brand incivile appare chiaramente come una risorsa utilizzata per comunicare una collocazione estranea al mondo della vecchia politica, di cui il popolo è stanco e insoddisfatto. Il ricorso all’inciviltà non solo consente di marcare una distanza dalla politica tradizionale; permette nello stesso tempo, di definire alcuni tratti dell’identità dell’attore politico e, di riflesso, quelli dei soggetti che si vuole rappresentare in termini elettorali.

(S. Bentivegna e R. Rega, La politica dell’inciviltà, Laterza, 2022).

In occasione del discorso di Trump nel 2021, citato pocanzi, si trattò di una comunicazione capace di aggregare più persone in nome di una comune matrice identitaria spingendo al culmine della mobilitazione con l’assalto a Capitol Hill da parte dei seguaci di Trump contrari all’incoronazione di Joe Biden. La questione che pone la politica dell’inciviltà è infatti proprio questa: cioè il fatto che un linguaggio aggressivo utilizzato dal candidato politico possa portare a manifestazioni violente da parte dei cittadini che si rendono compartecipi di tale imbarbarimento.

Certi atti di inciviltà sono molto visibili e riconoscibili, creano vere e proprie icone. Non è difficile ricordare i toni forti, anzi le grida di Giorgia Meloni sul palco pronunciando “Sono una madre, sono una donna, sono cristiana”, parole ripetute, impresse nella mente e spontaneamente associabili all’immagine della leader di Fratelli d’Italia.

Nel libro il marketing della paura, scritto da Fabio di Nicola, si fa riferimento al rapporto sugli studi sulle dinamiche delle emozioni e sulla creazione di una certa comunicazione che possa spingere le persone in modo consapevole a reagire in un certo modo. In questo libro, si fa cita un esperimento condotto nel 1971 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford diretto dal professor Philip Zimbardo.

<<Zimbardo riprese alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della deindividualizzazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali>>.3

Per l’esperimento scelsero 24 uomini di ceto medio, tra i più equilibrati ed estranei a comportamenti devianti e furono divisi in due gruppi: detenuti e guardie, simulando l’ambiente di un carcere. Già al quinto giorno i detenuti mostrarono sintomi di disgregazione individuale e collettiva, mentre le guardie si comportavano con loro in modo sadico. La prigione finta si era trasformata in realtà. Dunque, secondo l’esperimento assumere una funzione di controllo sugli altri può arrivare ad indurre ad assumere le regole di quell’istituzione come unico valore di riferimento. La deindividuazione induce ad una perdita di responsabilità individuale, il soggetto “io” diventa soggetto “gruppo”.

Questo effetto, denominato “effetto lucifero” nutre una forte correlazione con il mondo politico poiché l’aggressività è influenzata dal contesto in cui l’individuo si trova e all’istituzione cui aderisce. I meccanismi connessi alla paura, come è stato dimostrato da studi di neuro marketing specifici citati nel libro di Di Nicola, sono meccanismi di facile manipolazione e di conseguenza di spinta alla mobilitazione.

5. Costruzioni binarie

Diviene sempre più esplicita, in Italia, la frattura insanabile tra destra e sinistra. In tale contesto la politica diventa il terreno per una battaglia tra leader che detengono il potere del linguaggio. Chi sa usarlo ne esce vincitore.

Si potrebbe pensare che il mondo esista indipendentemente da come noi lo vediamo. Ma non è così. La nostra visione del mondo è essa stessa parte del mondo. I frame concettuali esistono a livello inconscio nei circuiti neuronali del nostro cervello, e definiscono e delimitano la nostra visione del mondo, influenzando le nostre azioni.

(George Lakoff, Non pensare all’elefante, chiarelettere, 2014)

Nel 2014 Il linguista George Lakoff interrogandosi sul bipolarismo americano tra Repubblicani e Democratici elabora la teoria del framing. Secondo Lakoff ogni parola rimanda ad un’immagine nella nostra mente attivando cioè una cornice, un frame. Ogni individuo possiede inconsciamente degli schemi mentali che sono il frutto della propria esperienza nel mondo. Tuttavia, se una parola non riesce ad attivare un frame mentale in una persona, quest’ultima non ne capisce il senso e la ignora.

La nostra comprensione della realtà non è mai oggettiva e uguale a quella di qualcun altro e inevitabilmente ogni forma di comprensione è legata ad un modo di rappresentarsi la realtà, al modo di costruire una mappa della realtà.

Quello che comunichiamo diventa comprensibile attivando effetti proprio perché adottiamo delle attività di incorniciamento attraverso metafore, immagini, simboli.

Se veniamo a conoscenza di fatti ai quali non corrispondono strutture concettuali presenti nel nostro cervello, questi ci sfuggono perché non riusciamo ad interpretarli. Non li ascoltiamo, non li accettiamo, ci confondono e per questo li etichettiamo come irrazionali o insensati.

Il linguaggio utilizzato orienta la percezione del fenomeno e una buona comunicazione è capace di integrare aspetti passionali e non in modo ragionevole, in un framing onesto e ragionato. <<È dall’emergere di una nuova lingua che si individua un cambiamento sociale. Quando ci si riprende il diritto di nominare le cose diversamente, di abbattere i muri retorici, di arricchire la lingua comune>> 4

<<Quando discutiamo con qualcuno dello schieramento opposto al nostro utilizzandone il linguaggio, attiviamo i frame di quello schieramento, rafforzandoli in chi ci ascolta a scapito dei nostri>>.5

Lakoff ci dice che utilizzare il linguaggio dell’avversario così come portare alla ribalta i tratti distintivi del leader contrapposto, non solo fa perdere di vista la comunicazione circa i propri valori ed il proprio programma politico ma, sposta l’attenzione verso l’avversario che viene ad essere rafforzato. Utilizzare il racconto dell’avversario significa concedergli il privilegio di designare l’agenda politica privando ai propri elettori la possibilità di riconoscersi nella costruzione di un proprio frame. Il cosiddetto “errore dell’elefante” si riscontra facilmente nella comunicazione politica italiana e nella maggior parte dei casi è la sinistra ad abusarne.

Nella recente campagna elettorale, l’intera comunicazione del Pd si è basata sul richiamo all’avversario a partire dallo slogan “scegli” accompagnato da un visual storytelling chiaro: il nero (loro) ed il rosso (noi) due colori che diventano simbolo di una scelta fondamentale tracciata dall’elemento disgiuntivo “o”. O il nero o il rosso, o il passato negativo della destra o la speranza di futuro della sinistra.

Nel discorso di apertura di Letta, il tema centrale è il passato negativo della destra: “quel governo aveva portato il Paese in bancarotta”, “l’Italia si trovò ai margini della bancarotta” “la disoccupazione giovanile”. Qui Letta non parla di una vittoria per la libertà dei cittadini ma di una scelta per la “speranza”, rimanendo anche in questo caso troppo astratto.

Conclusioni

Dal voto di appartenenza ai partiti di massa si è passati alla ricerca di consenso e al convincimento dei cittadini. Il leader è diventato l’incarnazione di valori rendendo possibile un’identificazione con l’elettorato. La comunicazione si fa breve, si punta ai colori e alle frasi ad effetto con il forte rischio di lasciare da parte i contenuti. La deriva del marketing, della spettacolarizzazione, della personalizzazione e dell’intera costruzione binaria finisce per maturare una disaffezione da parte degli elettori rassegnati da una battaglia più incentrata al raggiungimento della vittoria che alla risoluzione dei problemi vivi all’interno della società. La “messa in scena” di una democrazia vuota di contenuti richiama anche l’esigenza di una “rigenerazione”6 per frenare la crisi in atto.

Mettere la cura al centro della politica, significa, come ha sottolineato Maria Luisa Boccia: <<contrastare l’incuria che la pervade. Mai come ora la politica è incuria, violenza, affare, corruzione>>.

(Marco Deriu, rigenerazione- per una democrazia capace di futuro, Castelvecchi, 2022, p. 215)

La brutalità politica sui corpi delle donne

“Hands off my hijab” è il motto delle donne in Francia che protestano per la libertà di indossare l’hijab.

“Jin, Jiyan, Azadi” è lo slogan delle donne in Iran che protestano per la libertà di non indossare l’hijab.  

 Le donne nel mondo invocano a gran voce una libertà che si traduce nell’avere il diritto di scegliere.

 Non concedere alle donne questo diritto significa esercitare una forma di controllo sui loro corpi e, qui, il problema non è l’hijab, il problema è più profondo e, risiede nella legittimazione di potere data a uomini che esercitano forme di sottomissione e di violenza nei confronti delle donne.

Mariem Chourak ha sedici anni e considera indossare il velo “un’espressione della propria devozione religiosa”, indossare l’hijab fa parte della propria identità, non farlo sarebbe per lei un’umiliazione.

 Mahsa Amini aveva ventidue anni, “aveva” perché è stata picchiata a morte dalla polizia morale poiché una ciocca di capelli fuoriusciva dal velo.

 Ecco che togliere l’hijab e tagliare i capelli diventa simbolo di protesta verso chi considera quei corpi sofferenti dei corpi invisibili.

Più leggevo queste storie e più pensavo all’Ancella, quel racconto ambientato in un futuro prossimo ma che interpella decisamente il presente. Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood è espressione della brutalità politica, meschinamente puritana che, fonda la sua legge sul corpo femminile.

 Dai silenzi al grido, il coraggio della parola parte dalla singola voce e giunge al coro di grida amare verso lo Stato più repressivo che non riesce a schiacciare i desideri.

Il diritto di scegliere è il diritto delle donne all’autonomia del proprio corpo, dall’inglese “bodily autonomy”. Significa poter decidere se indossare il velo oppure no. Significa se, quando e con chi avere rapporti sessuali, quando rimanere incinta e se abortire.

Governare sui corpi significa sottrarre a queste vite il diritto di scegliere.

Questo non è il modo di unirsi al dolore della vittima.

Tutto ciò che è accaduto nelle ultime ore ci mostra un mondo macabro e spaventoso dove il rumore dei clic per ottenere più visualizzazioni copre il silenzio dovuto di fronte ad una violenza.

Come può una persona condividere il video di uno stupro? Come può un giornale diffonderlo? E come può una politica approfittarne per fare propaganda?

Mesi fa scrivendo la tesi di laurea sulla narrazione della violenza di genere da parte della cronaca nostrana ho potuto analizzare vari testi di cronaca nera, e spesso mi sono ritrovata a leggere storie di donne uccise o violentate vendute come l’ultima fiaba romantica da proporre al mercato.

Vendere, vendere e vendere. Dai media alla politica si vendono notizie e si vendono idee in vista di un qualcosa: dalle visualizzazioni sul sito online di una testata per ottenere guadagno alla manipolazione delle menti nella capacità di legare elementi fuorvianti con lo scopo di enfatizzare una campagna basata sull’attacco alle minoranze.

Ed ecco che vendere al grande pubblico di utenti il video di uno stupro diventa l’occasione per plasmare l’obiettivo, ed ecco che vendere al grande pubblico di utenti il video di uno stupro diventa l’occasione per dimostrare ancora una volta il declino di una società.

Voi che avete visto il video, che lo avete condiviso o inoltrato sentite forse di aver aiutato la vittima? Oppure ancora una volta avete calpestato la sua dignità? Rispondetevi da soli e se proprio volete provare empatia e cercare la vostra umanità perduta mettetevi nei panni di una donna che dopo aver subito una violenza si rivede negli schermi e riascolta le sue urla. Voi in quel momento non la state abbracciando ma state usando le vostre incoscienti braccia per toglierle di dosso ulteriori diritti.

Cara politica, che tanto ti ostini a ricercare nella provenienza dello stupratore la causa della violenza di genere dovresti comprendere quanto la potenza del tuo linguaggio possa essere determinante. Ma fin quando la propaganda politica sarà basata più sull’odio che sull’umanità continueremo ad acquistare idee errate capaci di allontanarci da quello che è il succo del reale problema: l’autorizzazione di forme di potere sul corpo di una donna troppo spesso vittima di una società sorda.

La provenienza dello stupratore non incide sulla storica e radicata asimmetria di potere tra uomo e donna; così come la pubblicazione dell’atto violento non rende giustizia alla vittima ma, al contrario, la mortifica.

Questo non è il modo di fare politica.

Questo non è il modo di unirsi al dolore di una vittima.

Femminicidio: linguaggio e cultura

7 donne sono state uccise negli ultimi 10 giorni.

Mentre i femminicidi continuano a consumarsi davanti ai nostri occhi, nelle nostre città, nelle nostre strade e nei nostri palazzi che responsabilità ha ognuno di noi e che responsabilità hanno i media nella narrazione?

I femminicidi sono sempre stati trattati come fatti di cronaca nera isolati e privati, prima trasformati in fiction e poi minimizzati.
Ogni uomo che commette femminicidio è un uomo che non ha attenuanti, eppure non si legge mai nelle narrazioni giornalistiche dei casi di violenza contro le donne che l’assassino è un assassino. Non si dice di lui che è un uomo che odia le donne, una persona violenta o uno stupratore. Si narra del “bravo ragazzo conosciuto da tutti” o del “buon padre di famiglia” che per un improvviso raptus di gelosia o per un attimo di follia ha deciso di togliere la vita ad un’altra persona, ad una donna.

Mentre si chiede continuamente alle donne di denunciare, nessuno chiede agli uomini di smettere di uccidere. Assurdo, no?

La violenza contro le donne è un fatto pubblico che coinvolge tutti. Un fattore culturale che non si consuma solo all’interno delle mura domestiche.
Per ricercarne le cause occorrerebbe partire dalla nostra società e per produrre il cambiamento smantellare la cultura maschilista e patriarcale che ci soffoca ancora troppo.

Ma come si può intervenire sulla cultura? Partendo dal linguaggio.
Perché il linguaggio è un’arma e non è vero che valgono molto di più le intenzioni.
Esso è la terra su cui poi con il tempo si ramificano stereotipi e pregiudizi.

Utilizzare le parole giuste è molto importante , per questo:
I mass media devono cambiare linguaggio.
Le istituzioni devono cambiare linguaggio.
Ognuno di noi deve cambiare linguaggio. E qui entra in gioco la responsabilità individuale.

“era una poco di buono”
“stai zitta”
“che donna con le palle”
Sono solo la più piccola parte delle frasi che non vogliamo sentire più.

Non esiste un MA o un PERÓ dinanzi alla morte di una donna vittima di violenza.
Ogni donna è libera.
Ogni donna è stanca di sentire in televisione che dietro un femminicidio debba esserci sempre una giustificazione.
Basta.

Dialogo e interazione: arriva “Sbobiniamo”

All’università, dove ci si trova dinanzi ad una varietà di corsi, è possibile instaurare un certo tipo di rapporto, fatto di dialogo e scambio, con i docenti?

All’interno dei corsi di laurea, che contano numeri elevati di studenti a lezione, è complesso pensare ad un coinvolgimento personale da parte di ogni studente. Nonostante ciò, molti vorrebbero instaurare un rapporto di confronto libero, poiché considerato stimolante e utile ai fini della propria formazione.

Un buon numero di universitari sembra interessato a trarre profitto dalle lezioni accademiche. Gli esami finiscono quindi per rappresentare il culmine di un intenso percorso di crescita, scoperta e miglioramento; e non il mero obiettivo di chi frequenta l’università per collezionare una marea di voti e pochi contenuti.

Dunque, dialogo ed interazione si configurerebbero come i due oggetti di desiderio tanto auspicati da parecchi ragazzi che ricercano confronti e spunti di riflessione non solo mediante i professori, ma anche con i colleghi del proprio corso.

L’università, infatti, è un percorso che si co-costruisce, dove il contribuito di ognuno diventa un prezioso tassello da inserire per completare l’intero quadro.

Parlando della mia esperienza personale, durante il primo anno di università, ancor prima dello scoppio della pandemia, ho conosciuto tre splendide ragazze in facoltà. I nostri dialoghi sono stati indispensabili e il loro livello di interazione in aula mi ha spinta a fare sempre di più.

Con una di queste ragazze, Roberta, abbiamo ideato un sito, dal nome Sbobiniamo, con lo scopo di realizzare uno spazio comune in cui ognuno può esprimersi liberamente. Nel nostro sito vogliamo far nascere delle idee, intendiamo far comprendere l’importanza del confronto e del dialogo su temi di grande rilevanza sfiorati quotidianamente in aula. Professori e studenti diventano quindi fruitori e produttori di contenuti utili sia a livello individuale che collettivo,per un’esperienza decisamente arricchente!

Con la speranza che la nostra iniziativa sia apprezzata e condivisa dal nostro corso ma anche da tutti gli studenti che credono che il coinvolgimento in aula sia un punto essenziale per il proprio sviluppo.

Grazie per aver letto questo articolo!


In questo post Fb parliamo del nostro sito:
https://www.facebook.com/100004391358498/posts/1879715945518099/?d=n
Potresti dare un’occhiata, perfavore?☺️

Il Catcalling: una maschera per coprire brutte intenzioni

È mezzanotte. Una donna sta tornando a casa dopo una serata elegante, indossa dei tacchi a spillo e un abito nero. Adesso supponiamo che tale donna, nell’atto di camminare libera e tranquilla, si senta disturbata improvvisamente da un commento esplicito non desiderato seguito da un fischio. Provate ad immaginare il suo sangue gelarsi ed il suo cuore aumentare di battiti.
Questo vi sembra forse un “complimento”?
Mi rifiuto di credere che sia così.
Il problema è che la cultura in cui siamo immersi ci ha trasmesso l’idea che se sei una donna e ricevi un complimento non richiesto e dei commenti volgari per strada per il tuo modo di camminare e per il tuo corpo devi esserne solo onorata e andarne fiera.
Se sei una donna molto probabilmente ti sarà capitato nella vita di subire catcalling. Questo non vuol dire che le molestie sessuali per strada non capitino anche agli uomini, ma i dati parlano chiari sulla specifica componente di genere, che ricade più sulle donne.
Di fronte a tale fenomeno, non sono poche le ragazze che decidono di cambiare stile di abbigliamento, di non percorrere più certe strade e di tornare in casa ad un certo orario.
È angosciante il solo pensiero di sentirsi privati della libertà di girare come, quando e dove si vuole senza ricevere espressioni invadenti o strombazzate dall’auto.
Nonostante tutto ciò, in Italia il catcalling è continuamente sminuito. Per molti è solo un semplice apprezzamento o complimento. Si passa da “se non sai apprezzare un complimento hai qualche problema” a “continuando così non si potrà più dire nulla”, espressione questa che ha scocciato, e non poco.
Dunque, oggi, non bisogna intervenire sulle reazioni delle donne invitandole ad essere “più superficiali” e “meno esagerate”, a detta di alcuni, all’interno di un sessismo soffocante che sussurra a voce stridula di uscire, farsi belle e vestirsi per catturare lo sguardo maschile.
Occorre, invece, prendere consapevolezza del fenomeno ed intervenire a livello dei commentatori di strada. Bisogna partire proprio da qui. Il catcalling non è un complimento, ma solo una maschera per coprire brutte intenzioni.

Insieme si vince

Posso votare, posso studiare, posso scegliere la vita che voglio, posso indossare dei pantaloni, posso tagliare i capelli quanto voglio, posso investire nella carriera, posso raggiungere l’indipendenza economica. La Giornata Internazionale della Donna ha come obiettivo principale quello di stimolare una riflessione sul ruolo, le conquiste ed i diritti del genere femminile nel mondo.

Nel 1900 una serie di vicende portarono alla rivendicazione dei diritti e dunque alla nascita di una giornata a loro dedicata. In particolare, questa Giornata viene collegata a due avvenimenti storici: la morte, causata da un incendio, di un gruppo di operaie, che stavano scioperando contro le terribili condizioni di lavoro, in un’industria tessile di New York e la protesta delle operaie russe, contro lo Zar, durante la Rivoluzione di febbraio.

Secondo alcuni pareri la ricorrenza dell’8 Marzo è solo una “festa commerciale” priva di significati sociali, civili e umani. Secondo altri non è possibile celebrare tale ricorrenza in un momento storico in cui ancora l’emancipazione femminile è un processo in divenire e in cui la violenza di genere raggiunge picchi inauditi.
È vero, il processo di emancipazione è in continuo divenire. Proprio per questo bisogna riflettere. Anzi, credo proprio che questo sia l’obiettivo primario dell’8 Marzo.

Oggi siamo un passo avanti rispetto a ieri ma un passo indietro rispetto al futuro. I passi da percorrere sono ancora tanti ma, voglio celebrare la Giornata Internazionale della Donna con il sorriso e la speranza, raccogliendo i progressi di quest’ultimo periodo.
Sapete che in un anno sono successe anche tantissime cose positive?

In Danimarca è cambiata la legge: se non c’è consenso è stupro.
La Sierra Leone ha annullato la legge che proibiva alle studentesse in gravidanza di frequentare la scuola.
In Argentina è stato legalizzato l’aborto.
Il Sudan ha abolito le mutilazioni genitali femminili.
In Corea del Sud l’aborto non è più illegale.
La Costa Rica ha legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
La Scozia ha reso i prodotti mestruali gratuiti per tutti.

Il 2020 ha avuto come protagoniste le donne e le loro rivendicazioni. E grazie a loro possiamo dire di avere qualche diritto in più. Perché insieme si vince.

Il progetto “Le donne che hanno cambiato la storia” nasce da un’idea di Elena Raimondi ed intende valorizzare la figura femminile proponendo dieci ritratti di donne che hanno dato un’importante spinta al cambiamento.

Si sa, le donne soffrono ogni mese a causa del ciclo mestruale; quest’ultimo non è soltanto sangue e mal di pancia, ma è soprattutto qualcosa che rende le donne forti e determinate ogni giorno.
Per questo, Elena ha deciso di disegnare le donne su teli tipici degli anni ‘50/’60, usati per il ciclo.

Non tutti sanno che nell’antica Roma il ciclo era considerato una “malattia”. La sola presenza della donna poteva contaminare il cibo e l’agricoltura o condizionare le sorti di una guerra e l’esito di un buon affare. Soprattutto nel periodo storico caratterizzato dalla “caccia alle streghe” parlare di “mestruazioni” era molto pericoloso, le donne dovevano nascondere le perdite indossando indumenti rossi o spugne in grado di assorbire il flusso.
Durante la Prima guerra mondiale le donne furono obbligate a svolgere lavori pesanti sostituendo gli uomini ormai impegnati al fronte: di conseguenza era necessario per loro un assorbente comodo da indossare e pratico da trasportare.
Dal 1920 furono realizzati i primi in cotone e cellulosa, venduti con la formula self-service, perché comprarli sarebbe stato troppo imbarazzante!

Da angeli del focolaio, le donne iniziarono a diventare membri attivi dell’economia e della società collettiva, ma la visione maschilista ed il sistema patriarcale impedirono comunque un decisivo stravolgimento della considerazione del ruolo della donna. In quel periodo, nelle fabbriche la presenza femminile era avvertita come un “sovvertimento dell’ordine naturale e un attentato alla moralità”.
Nonostante l’“emancipazione lavorativa” le donne non erano ancora ascoltate. Così, si unirono solidali in un’unica voce, molto forte, nella rivendicazione dei propri diritti.
Il voto alle donne, o suffragio femminile, è una conquista recente nella nostra storia. il 30 Gennaio del 1945, quando l’Europa era ancora impegnata nella Seconda Guerra Mondiale, la questione venne trattata e votata come qualcosa di ormai “inevitabile”. Nonostante non tutti fossero d’accordo, le donne italiane votarono, per la prima volta, il 2 Giugno del 1946.

La storia dell’affermazione della figura femminile nella società è una storia di forza e coraggio, di energia inesauribile, di donne che hanno cambiato la storia.
Le dieci donne selezionate dall’artista Elena sono: Maria Montessori per l’educazione, Rosa Parks per i diritti civili, Frida Kahlo per l’arte, Madre Teresa di Calcutta per la religione, Rita Levi Montalcini per la medicina, Gabrielle Chanel per la moda, Anna Frank simbolo della Shoah, Margherita Hack per l’astrofisica, Lady Diana per la monarchia e infine Chiara Ferragni per l’imprenditoria.

Ciò che siamo oggi è il risultato di innumerevoli cambiamenti passati. Ciò che saremo domani lo dovremo ai passi compiuti oggi. Non bisogna mai dimenticare chi, prima di noi, ha speso passione e vita. Anzi, prendendo esempio occorre seguire la strada del cambiamento, un passo che Elena Raimondi ha fatto con il suo progetto per continuare a segnare la bellissima storia delle donne che, con o senza ciclo, abbandonano le debolezze e lottano per sé stesse e per il Mondo.

Dall’inizio della pandemia, l’idea di viaggiare è diventata più un sogno che una realtà effettiva.
In questi lunghi mesi ho provato un’irrefrenabile nostalgia di luoghi già visitati ed una forte curiosità di muovermi alla scoperta di posti nuovi. Ci sono stati giorni in cui ho sentito il desiderio di “vagabondare”, di muovermi libera spinta soltanto da un vento leggero e piacevole.

In quei giorni così carichi di desiderio, ho chiuso gli occhi e ho trovato quella libertà grazie all’immaginazione. Immaginare di poter correre in uno spazio senza confini o di tuffarsi in un mare profondo ti fa sentire viva, fin quando tieni giù le palpebre.

Oggi, colpita dalla medesima voglia di evadere, ho pensato di viaggiare tenendo gli occhi aperti. La nostra cultura, muovendosi dall’arte alla letteratura, è segnata da meravigliose esperienze di viaggi che abbiamo letto o osservato.

Dunque, mi sono subito catapultata nel 1818. Immedesimandomi nel celebre Viandante sul mare di nebbia di Caspar Davide Friedrich e mi son chiesta quali potessero essere le sensazioni provate davanti ad un mare irrequieto e ad un orizzonte poco visibile.
Ho continuato questo metaviaggio ricercando la pace interiore, la stessa che Edward Hopper rievoca nei suoi dipinti, e mi son messa nei panni della donna ritratta in treno mentre legge un buon libro. Che bella emozione!
Andando avanti sono giunta ad Arles, dinanzi al vasto campo di iris rappresentato da Vincent Van Gogh. Ai rumori della città si è sostituito l’allegro cinguettio. All’incertezza del periodo si è sostituita una fugace atmosfera di tranquillità.

Pensate un po’ di continuare questo viaggio passando per Venezia e arrivando in Cina percorrendo la via della seta nei panni di Marco Polo. Immaginate la curiosità e l’adrenalina nel rivivere il viaggio di Ulisse e poi quello di Dante, Enea, Platone e Filodemo.
Lo stupore di arrivare fin sulla Luna grazie ad Ariosto!

Credo di aver scoperto un nuovo modo di viaggiare. Ogni esperienza vissuta da altri può essere letta o vista da ognuno di noi con occhi diversi. Possiamo provare emozioni discordanti ad altri dinanzi alla medesima situazione. Siamo in un continuo divenire che trasforma perfino il nostro modo di vedere le cose. Ogni viaggio, reale o immaginario, ha tanti modi di essere vissuto e mai rievocherà le medesime sensazioni: per questo è unico.